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Così i buchi neri distruggono le stelle

Un nuovo studio condotto da Elad Steinberg e da Nicholas C. Stone dell’Istituto di Fisica Racah della Hebrew University di Gerusalemme getta nuova luce sui buchi neri supermassicci. Queste enigmatiche entità cosmiche, la cui massa varia da milioni a miliardi di volte quella del Sole, sono ancora inafferrabili nonostante il loro ruolo centrale nel modellare le galassie. La loro estrema attrazione gravitazionale deforma lo spaziotempo, creando un ambiente che sfida la nostra comprensione e costituisce una sfida anche per gli astronomi osservativi.

È in questi ambienti estremi che entrano in gioco i tidal disruption events (Tde, in italiano eventi di distruzione mareale) un fenomeno che si verifica quando stelle sfortunate si avventurano troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero e vengono fatte a pezzi in sottili flussi di plasma. Quando questo plasma ritorna verso il buco nero, una serie di onde d’urto lo riscalda, dando luogo a uno straordinario spettacolo: un brillamento che supera la luminosità di un’intera galassia per settimane o addirittura mesi.

Lo studio condotto da Steinberg e Stone rappresenta un significativo passo avanti nella comprensione di questi eventi cosmici. Per la prima volta, le loro simulazioni hanno ricreato un evento Tde realistico, catturando l’intera sequenza della distruzione stellare, dalla perturbazione iniziale al picco di luminosità del brillamento che ne consegue; il tutto reso possibile dal pionieristico software di simulazione sviluppato da Steinberg.

Questo studio ha svelato un tipo di onda d’urto finora sconosciuto all’interno dei Tde, risolvendo un dibattito di lunga data su quale sia la sorgente di energia delle fasi più luminose di questi eventi. Conferma, cioè, che sia la dissipazione dell’onda d’urto ad alimentare le settimane più luminose di un brillamento Tde, e apre le porte a studi futuri per utilizzare le osservazioni Tde come mezzo per misurare le proprietà fondamentali dei buchi neri e per testare le previsioni di Einstein in ambienti gravitazionali estremi.

 

Fonte: Media INAF

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