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Transitare lungo i bordi

Il metodo dei transiti è tra quelli più utilizzati per l’individuazione di pianeti extrasolari e ha permesso di scoprirne fino a oggi quasi quattromila. Per spiegarlo partiamo dal definire una curva di luce come una misurazione della luminosità di una stella durante un certo periodo di tempo. Gli esopianeti possono lasciare tracce nella curva di luce: se un pianeta passa davanti alla sua stella, ne attenua la luminosità, portando così la curva di luce ad abbassarsi. Valutazioni precise della forma, della durata di tali curve forniscono informazioni sulle dimensioni e sul periodo orbitale del pianeta.

Spiegato così sembrerebbe un meccanismo molto semplice. Ma come accade spesso in ambito scientifico la realtà è assai più complessa. Uno dei problemi emerge dall’impossibilità di riuscire a riprodurre con successo attraverso i modelli teorici tutti i dettagli cruciali delle osservazioni, e questo ostacola un’analisi ancora più precisa dei dati. In un nuovo studio sull’argomento, pubblicato la settimana scorsa su Nature Astronomy e guidato dal Max Planck Institute for Solar System Research (Mps), gli autori, tra cui ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, dello Space Telescope Science Institute, dell’Università di Keele e dell’Università di Heidelberg, mostrano un modo per superare questo problema.

Lo studio si basa inizialmente sull’esopianeta Wasp-39b, in orbita attorno alla stella Wasp-39, a 700 anni luce di distanza da noi, nella costellazione della Vergine. Subito è risultato chiaro che i dati raccolti dall’osservazione di questo pianeta non fossero esattamente in linea con i modelli. «I problemi che sorgono nell’interpretare i dati di Wasp-39b», spiega Nadiia Kostogryz, ricercatrice del Mps e prima auttrice dell’articolo, «sono ben noti per molti altri esopianeti, indipendentemente dal fatto che siano osservati con Kepler, Tess, James Webb o il futuro telescopio spaziale Plato. Come con altre stelle intorno a cui orbitano esopianeti, la curva di luce osservata di Wasp-39 è più piatta di quanto possano spiegare i modelli più recenti». Detto altrimenti, la diminuzione della luminosità risulta meno brusca di quanto vorrebbero i modelli. «Era chiaro che mancava un pezzo fondamentale per comprendere precisamente il segnale degli esopianeti», aggiunge Sami Solanki, fra i coautori dello studio. E il tassello mancante, suggeriscono gli autori, è il campo magnetico della stella.

Prima di addentrarci in dettaglio nel perché il campo magnetico non sia da sottovalutare, conviene fare un passo indietro e considerare come è fatta una stella. Il suo “bordo”, cioè il margine del disco stellare, gioca infatti un ruolo importante  nell’interpretazione della sua curva di luce. Proprio come nel caso del Sole (figura in alto), a noi osservatori il bordo appare più scuro rispetto all’area interna. Tuttavia, la stella non brilla meno intensamente più lontano da quello che vediamo come centro.  «Poiché la stella è una sfera e la sua superficie è curva, man mano che ci spostiamo verso il bordo vediamo strati più “alti” e quindi più freddi rispetto al centro», spiega il direttore dell’Mps Laurent Gizon, fra i coautori dello studio. «Questa area, quindi, ci appare più scura».

Il fenomeno dell’oscuramento al bordo influisce sulla forma esatta del segnale del transito dell’esopianeta nella curva di luce: l’estensione dell’oscuramento determina infatti quanto ripidamente la luminosità di una stella diminuisce durante un transito planetario. Tuttavia, come dicevamo, non è stato possibile riprodurre accuratamente i dati osservativi utilizzando i modelli convenzionali dell’atmosfera stellare.  Tenendo però conto, nei modelli, del campo magnetico è stato possibile osservare un effetto importante: l’oscuramento è più pronunciato nelle stelle con un campo magnetico debole, mentre è più debole in quelle con un campo magnetico forte.

Gli autori dello studio sono stati così in grado di dimostrare che la discrepanza tra i dati osservativi e i calcoli del modello scompare se il campo magnetico della stella viene incluso nei calcoli. In particolare, il team di scienziati ha utilizzato dati selezionati dal telescopio spaziale Kepler della Nasa, che ha catturato le curve di luce di migliaia di stelle dal 2009 al 2018. Dal confronto fra i dati reali e il nuovo modello che include anche il campo magnetico, le osservazioni di Kepler vengono riprodotti con successo.

Il campo magnetico, ora che conosciamo il suo effetto sull’oscuramento al bordo della stella, e dunque il suo impatto sulla ripidità delle curve di luce dei transiti, dovrebbe perciò essere tenuto in considerazione, nelle future osservazioni, per ottenere dati ancora più precisi.

 

Fonte: Media INAF

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