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Mistero sotto il mantello

La storia vulcanica della Luna è il racconto intrigante di un’attività basaltica che si è protratta per almeno 2 miliardi di anni. Tuttavia, rispetto alle rocce terrestri, la diversità nella composizione mineralogica dei campioni lunari restituiti dalle missioni Apollo della Nasa ha continuato a sfidare la comprensione scientifica.  Noti come high-Ti basalts per la  quantità insolitamente elevata di titanio, i basalti lunari da sempre hanno incuriosito gli studiosi del nostro satellite naturale.

Una ricerca pubblicata questa settimana su Nature Geoscience, guidata dalle università di Bristol nel Regno Unito e di Münster in Germania, sembra ora aver risolto questo rompicapo della geologia lunare, individuando un passaggio fondamentale nella genesi di magmi speciali alla base del processo di formazione delle rocce lunari.

Grazie alla combinazione di esperimenti in laboratorio – con rocce fuse ad alta temperatura – e di sofisticate analisi isotopiche sui campioni lunari, i ricercatori hanno identificato la reazione critica e sono riusciti, per la prima volta, a “imitare” in laboratorio il processo di formazione dei basalti ad alto contenuto di titanio. Il meccanismo chiave consisterebbe in un processo reattivo avvenuto all’interno della Luna, nel profondo del suo mantello, miliardi di anni fa, durante il quale si sarebbe verificato uno scambio degli elementi chimici ferro (Fe) e magnesio (Mg) tra il magma e le rocce circostanti, modellando e modificando così la composizione chimica e le proprietà fisiche della fusione.

«L’origine delle rocce vulcaniche lunari è una storia affascinante», dice Tim Elliott dell’Università di Bristol, coautore della ricerca. «È come studiare una “valanga”, instabile e di dimensioni planetarie, piena di cristalli creati dal raffreddamento di un oceano di magma primordiale». Secondo la teoria dell’oceano magmatico lunare (Lmo), infatti, l’interno della Luna sarebbe stato modellato dalla progressiva cristallizzazione di un oceano magmatico che, solidificandosi, avrebbe prodotto un mantello a strati, dominato da rocce ricche di minerali di olivina e ortopirosseno, e una crosta lunare di anortosite. Le concentrazioni sorprendentemente elevate di titanio in alcune parti della superficie lunare sono note fin dagli anni ’60 e ’70, quando le prime missioni lunari hanno restituito campioni di lava antica solidificata prelevati dalla crosta lunare. Inoltre, una mappatura più recente, effettuata da un satellite in orbita, ha confermato che questi magmi high-Ti basalts sono molto diffusi sulla Luna. Affinché si formino, considerando la geologia lunare, è necessaria una grande sorgente di titanio, e un’ipotetica fonte potrebbe essere quella nei “serbatoi” di ilmenite – un minerale ricco di ferro e titanio – presenti nel mantello lunare.

La reazione di fusione-interazione individuata dal team di ricerca spiegherebbe non solo l’alto contenuto di titanio nelle rocce lunari ma anche la bassa densità di questi basalti rispetto a rocce simili sul nostro pianeta, caratteristica che sicuramente ha dato origine a numerose eruzioni diffusive prima che la Luna cessasse la sua attività vulcanica.

«Finora i modelli non erano stati in grado di creare composizioni magmatiche che corrispondessero alle caratteristiche chimiche e fisiche essenziali dei basalti ad alto tenore di titanio», spiega il primo autore dello studio, Martijn Klaver, ricercatore all’Istituto di mineralogia dell’Università di Münster. «È stato particolarmente difficile capire il perché di una densità così bassa da consentire la fuoriuscita di magma fino a circa tre miliardi e mezzo di anni fa». Le successive misurazioni effettuate sui campioni di roccia riprodotti in laboratorio hanno rivelato una composizione isotopica distintiva: in pratica, un’impronta digitale delle reazioni riprodotte dagli esperimenti. «Se la presenza di un tipo di magma unico per la Luna si sospettava da tempo», conclude Elliott, «spiegare come questi magmi siano arrivati in superficie, tanto da essere campionati dalle missioni spaziali, è stato un problema spinoso. È fantastico aver risolto un tale dilemma».

 

Fonte: Media INAF

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