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Le cefeidi: ieri, oggi e domani

Con il nome di cefeidi vengono indicate tre diverse categorie di stelle variabili (stelle la cui luminosità varia periodicamente con il tempo) che hanno la caratteristica di essere delle ottime candele campione, le cui distanze individuali possono essere stimate con un’accuratezza di qualche percento. Le cefeidi classiche pulsano con periodi che vanno dal giorno a poche centinaia di giorni e sono traccianti di popolazioni stellari giovani (età inferiore a 200-300 milioni di anni) tipicamente associate a regioni di formazione stellare, mentre le cefeidi di tipo II pulsano con periodi che vanno dal giorno a un centinaio di giorni, sono traccianti di popolazioni stellari vecchie (età superiore a 10 miliardi di anni) e vengono principalmente identificate nel nucleo e nell’alone della nostra galassia. Tra queste due categorie principali si inseriscono le meno numerose cefeidi anomale che pulsano con periodi che vanno da qualche dozzina di ore a pochi giorni, associate a popolazioni stellari di età intermedia (qualche miliardo di anni).

Le strade della moderna astrofisica e quelle delle cefeidi si sono intrecciate diverse volte.

La prima cefeide galattica è stata scoperta nell’ottobre 1784 da un astrofilo britannico, John Goodricke, che facendo osservazioni regolari con il suo telescopio si era reso conto che la stella delta della costellazione del Cefeo era una stella variabile. In realtà la prima cefeide era stata scoperta il mese prima fa Edward Pigott ed era la stella eta della costellazione dell’Aquila. Edward era anche lui un astrofilo ed era non solo vicino di casa del giovane John ma anche suo amico e mentore. Decise di fare un passo indietro e di dare al giovane John (diciasettenne, sordomuto) la possibilità di annunciare per primo la sua scoperta. Se Edward non avesse fatto questo grande gesto di nobiltà d’animo oggi le chiameremmo ‘aquileidi’ e non ‘cefeidi’.

Il prossimo anno ricorre il centenario della pubblicazione dell’articolo di Edwin Hubble (1925) sulla scoperta delle cefeidi classiche nella galassia di Andromeda. Questo articolo segna la nascita della cosmologia osservativa e sancisce la fine dell’annosa disputa tra Curtis e Shapley a proposito della natura delle cosiddette “nebulae”. Curtis aveva ragione: si trattava di galassie esterne simili alla nostra e non di nebulose appartenenti alla nostra galassia.

È stato grazie alla scoperta di Walter Baade (1956) delle popolazioni stellari che ci si rese conto che le cefeidi classiche e le cefeidi di tipo II obbedivano a due diverse relazioni periodo-luminosità (PL). Questa fu una rivoluzione di proporzioni copernicane, sia per la stima dell’età dell’universo (che per la prima volta risultava maggiore dell’età della Terra basata sui decadimenti radioattivi) che per le sue dimensioni. La relazione PL era stata scoperta da Henrietta Leavitt nel suo studio delle cefeidi delle Nubi di Magellano (1912) e consente, una volta calibrata, di fornire distanze molto accurate.

A queste vanno aggiunte molte altre rilevanti scoperte che hanno utilizzato le cefeidi come fari per investigare la curva di rotazione della nostra galassia o come laboratori per fornire delle stime molto accurate delle proprietà fisiche (evolutive, pulsazionali) di stelle in fasi evolutive avanzate con masse che vanno da poco meno di una massa solare a una decina di masse solari.

Le rivoluzioni e le scoperte che abbiamo discusso si trovano in molti testi di storia dell’astrofisica. Sarebbe lecito pensare che le cefeidi possano essere considerate dal punto di vista astrofisico delle vegliarde sul viale del tramonto. Ma questa è un’illazione priva di fondamento. Le cefeidi continuano a essere il crocevia di importanti problemi astrofisici e cosmologici.

Le recenti identificazioni di cefeidi classiche in sistemi binari a eclisse nelle Nubi di Magellano hanno consentito di poter misurare la loro massa con un’accuratezza dell’uno per cento e di fornire dei limiti molto stringenti sui fenomeni di mixing che avvengono al loro interno. Queste stesse cefeidi sono state utilizzate per misurare, per la prima volta con un metodo geometrico, la distanza della Grande e della Piccola Nube di Magellano con un’accuratezza dell’uno e del due per cento.

Le Nubi di Magellano rivestono un ruolo fondamentale nella scala delle distanze cosmiche, perché vengono utilizzate come primo piolo nella determinazione della costante di Hubble. I risultati più recenti sulla stima di questa constante suggeriscono una tensione a livello di otto sigma tra la stima diretta basata su un campione locale di 42 supernove di tipo Ia calibrate con cefeidi classiche (H0=73.04±1.04 m/s/Mpc) e la stima della stessa costante basata sulla radiazione cosmica di fondo del satellite Planck (H0=67.4±0.5 km/s/Mpc). Questa tensione sembra suggerire che, attualmente, il nostro universo si stia espandendo con una velocità che è circa l’8 per cento più rapida rispetto alle previsioni dal modello cosmologico più accreditato (Lambda-Cdm). Questa differenza, se confermata, implicherebbe non solo un superamento del modello standard ma anche un’interessante opportunità per nuova fisica.

La comunità astrofisica si sta muovendo su tre strade diverse: a) verificare l’universalità, e in particolare la dipendenza dalla metallicità, delle relazioni PL utilizzate per stimare le distanze delle cefeidi; b) utilizzare candele campione traccianti di popolazioni stellari antiche come le cefeidi di tipo II e il tip del ramo delle giganti; c) ricerca di possibili errori sistematici. Questo sforzo titanico è ancora in atto, ma ci sono fondati motivi per pensare che i nuovi risultati del satellite Gaia e le nuove survey spettroscopiche da terra ci consentiranno di dipanare la matassa.

La misura delle abbondanze delle cefeidi sono importanti non solo per la scala delle distanze cosmiche ma anche per investigare la storia di arricchimento chimico della nostra galassia. Le cefeidi classiche vengono utilizzate per misurare i gradienti di composizione chimica del disco sottile in cui si trova il nostro Sistema solare e ci aiutano a capire come vengono formati molti elementi chimici, compresi quelli che sono alla base della vita – i cosiddetti Chnops (carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, zolfo).

Ci sembra opportuno sottolineare che il prossimo anno ricorre anche il centenario della pubblicazione della tesi di dottorato di Cecilia Payne, la prima donna ad aver ottenuto un dottorato in astrofisica. Lei usa per la prima volta l’equazione di Saha per la determinazione delle abbondanze stellari e dimostra che l’elemento più diffuso nell’universo è l’idrogeno. L’approccio da lei adottato apre la strada alla spettroscopia quantitativa e alla nucleosintesi.

 

Fonte: Media INAF

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