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I tesori di ‘El Gordo’ svelati da Jwst

È l’ammasso di galassie più massiccio che sia mai stato osservato a grandi distanze da noi, quando l’universo aveva circa 6,2 miliardi di anni, poco meno di metà della sua età attuale. Per questo, il team che nel 2012 scoprì Act-Cl J0102-4915, gli affibbiò il soprannome di El Gordo, ‘il grasso’ in spagnolo. Con una massa pari a oltre un milione di miliardi di volte quella del Sole, l’ammasso esercita un forte effetto di lensing gravitazionale sulle galassie retrostanti, ancor più lontane, deflettendo la loro luce e dando origine a una moltitudine di archi e altre forme bizzarre. Se potevamo già percepirne un accenno nei dati raccolti una decina di anni fa da terra e dal telescopio spaziale Hubble, ora possiamo ammirarle in tutta la loro magnificenza in una recente immagine realizzata con il James Webb Space Telescope (Jwst).

Una delle caratteristiche più curiose è un arco brillante dal colore rossastro a forma di C rovesciata, o meglio di amo, visibile verso il bordo destro dell’immagine: è infatti stato chiamato informalmente El Anzuelo, spagnolo per ‘uncino’. In basso a sinistra rispetto al centro, invece, spicca una traccia sottile e allungata: un arco dalla forma insolitamente non ricurva, soprannominato La Flaca, che sempre in spagnolo significa ‘la magra’.

Questa immagine è stata ottenuta nell’ambito del programma Pearls (Prime Extragalactic Areas for Reionization and Lensing Science), dedicato all’osservazione di 7 campi del cielo centrati su ammassi che, come El Gordo, fungono da lente gravitazionale. Non è solo un caleidoscopio di multiformi galassie colorate ma una ricchissima fonte di informazioni, sia sulla composizione dell’imponente ammasso di galassie che sulle proprietà di alcune galassie che splendevano nei primi miliardi di anni della storia del cosmo. I risultati sono presentati in quattro articoli, pubblicati o in corso di pubblicazione su The Astrophysical Journal e Astronomy & Astrophysics.

«La capacità di Jwst di catturare con nitidezza la radiazione infrarossa, anche estremamente debole, ci permette per la prima volta di osservare galassie risalenti a quando l’universo aveva appena 300 milioni di anni: la luce emessa dalle stelle in galassie lontane è osservabile nell’infrarosso perché dilatata a causa dell’espansione dell’universo. La radiazione infrarossa ha inoltre il vantaggio di poter attraversare la coltre di polveri che spesso avvolge le stelle durante le loro prime fasi di vita», spiega a Media Inaf  Mari Polletta, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) a Milano e co-autrice di uno dei quattro articoli. «L’aggiunta di una potente lente di ingrandimento, come un ammasso di galassie interposto tra noi e queste galassie, aumenta l’intensità di questa radiazione e dilata e distorce l’immagine delle galassie retrostanti, permettendoci di vedere più lontano, e in maggior dettaglio. La lente inoltre deflette la luce di queste galassie, creando più immagini delle stesse».

«Per poter ricostruire l’immagine intrinseca di una galassia magnificata, bisogna conoscere la distribuzione di materia (oscura e barionica) della lente», chiarisce Polletta, che ricorda l’importante contributo al progetto da parte di Mario Nonino, ricercatore dell’Inaf di Trieste, scomparso di recente. «Con Jwst, i modelli di lente sono diventati più sofisticati e precisi di quanto fosse mai stato possibile finora grazie a un gran numero di immagini magnificate: 56 sistemi magnificati con immagini multiple in El Gordo».

All’origine de El Anzuelo, per esempio, si trova una galassia la cui luce ha impiegato 10,6 miliardi di anni per raggiungere la Terra. Il suo caratteristico colore rosso è dovuto a una combinazione dell’arrossamento dovuto alla polvere all’interno della galassia stessa e del redshift cosmologico, lo spostamento della lunghezza d’onda verso il rosso – o, come in questo caso, l’infrarosso – dovuto all’espansione dell’universo. Correggendo le distorsioni create dal lensing, si è scoperto che la galassia ha una forma di disco e un diametro di soli 26mila anni luce, circa un quarto delle dimensioni della Via Lattea, e che all’epoca la formazione stellare stava già rapidamente diminuendo nelle sue regioni centrali.

La Flaca, invece, deve la sua peculiare forma rettilinea a una coincidenza cosmica: una galassia molto distante, la cui luce è partita oltre 11 miliardi di anni fa, allineata lungo la nostra linea di vista con la parte centrale dell’ammasso che funge da lente, quasi esattamente a metà tra le due concentrazioni di massa che caratterizzano El Gordo – dove si trovano le galassie dell’ammasso stesso, riconoscibili dalla forma ovaleggiante e dal colore biancastro, in basso a sinistra e in alto a destra nell’immagine – e che contribuiscono entrambe a deflettere il percorso della luce proveniente dalla sorgente lontana. Ma non finisce qui. «La Flaca è un arco gigante, tra i più estesi di quelli noti» sottolinea Polletta. «Comprende immagini multiple di tre galassie: per una di queste ci sono ben sei immagini, e due per le altre. Il gran numero di immagini multiple è dovuto alla presenza di galassie che fungono da lenti addizionali, oltre all’ammasso stesso. Queste immagini sono come riflesse da uno specchio immaginario che taglia l’arco a metà».

Un’altra galassia amplificata dal lensing gravitazionale, la cui luce ha viaggiato per circa 10,7 miliardi di anni, è visibile nell’angolo in basso a destra dell’immagine, dove appare sotto forma di due archi rossastri. In uno di essi, che a sua volta comprende due immagini della galassia, fa capolino una stella, molto probabilmente una gigante rossa. Soprannominata Quyllur, che significa ‘stella’ nella lingua quechua parlata un tempo dagli Incas e ancora oggi da milioni di persone in diverse parti del Sud America, è la prima gigante rossa osservata individualmente a oltre un miliardo di anni luce da noi. «È quasi impossibile vedere giganti rosse che hanno subito lensing a meno che non si osservi nell’infrarosso. Questa è la prima che abbiamo trovato con Webb, ma prevediamo che ce ne saranno molte altre», commenta Jose Diego dell’Instituto de Física de Cantabria in Spagna, primo autore di un altro dei nuovi articoli.

 

Fonte: Media INAF

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