La costellazione del Leone

Il Leone (in latino Leo) è una costellazione del cielo settentrionale. Il Leone si trova lungo la linea dell'eclittica, tra la debole costellazione del Cancro, ad ovest, e la Vergine, ad est. Celebre costellazione che ha il merito di assomigliare veramente al ciò che rappresenta ossia un leone accovacciato. Questa costellazione è molto grande e luminosa, e contiene tante stelle e alcune galassie molto interessanti. Le meteoriti leonidi cadono il 17 novembre, spesso si riescono a scorgere fino a 100.000 meteoriti all'ora.

Il Leone è una grande costellazione zodiacale dell'emisfero nord, individuabile con facilità nei mesi fra dicembre e giugno; nell'emisfero boreale, la sua presenza ad est dopo il tramonto indica il prossimo arrivo della primavera. Le sue stelle principali formano un grande trapezio, al quale è connesso un famoso asterismo, noto come La Falce, composto da Regolo, η Leonis e Algieba, assieme alle stelle più deboli Adhafera (ζ Leonis), Ras Elased Borealis (μ Leonis) e Ras Elased Australis (ε Leonis).

È facile distinguere la forma di un leone acquattato nella costellazione del Leone, la cui testa è sottolineata da alcune stelle disposte a falce. A segnare il punto del cuore del leone (dove lo localizzò Tolomeo) c'è la stella più brillante della costellazione, Alfa del Leone, chiamata Regolo, che in latino vuol dire “piccolo re” ed anche  il suo nome in greco Basiliscos, aveva lo stesso significato. Questa, una stella azzurra di prima grandezza, è l'unica così luminosa a trovarsi ad appena 0,5° dall'eclittica. Frequentemente la si può osservare il coppia con dei pianeti, in rari casi persino in congiunzione con essi, ed è frequentemente occultata dalla Luna. Assieme a Aldebaran, Antares e Fomalhaut forma il quartetto di stelle note in antichità come “le stelle regali”. La coda del leone è segnata dalla stella Beta del Leone, chiamata Denebola dall'arabo “la coda di leone”. Gamma del Leone ha nome Algieba, che in arabo vuol dire “la fronte”. Questa denominazione genera qualche confusione, poiché secondo Tolomeo questa stella è sul collo del leone, ma gli Arabi in questa posizione vedevano un leone molto più grande di quello visto dai Greci. Gamma del Leone è una famosa stella doppia, composta da un paio di stelle giganti gialle divisibili se osservate con un telescopio anche di piccola portata. Delta del Leone si chiama Zosma dalla parola greca “guaina” o “perizoma”, nome erroneamente applicato a questa stella durante il Rinascimento.

Il Leone si trova lontano dalla scia della Via Lattea e ciò consente l'osservazione del cielo profondo esterno alla nostra Galassia. In questa direzione è inoltre osservabile un gruppo di ammassi di galassie relativamente vicini a noi. Le galassie più famose sono anche quelle catalogate dal Messier, e in particolare M65, M66, che formano un gruppo a se stante assieme ad una terza galassia, NGC 3628. Notevoli sono poi M95 e M96, le più brillanti di un gruppo a cui appartengono altre galassie minori, fra le quali vi è anche 

Nuova misura per la costante di Hubble

In astronomia e cosmologia, la Legge di Hubble afferma che esiste una relazione lineare tra il redshift (termine anglo-sassone per designare lo “spostamento verso il rosso”) della luce emessa dalle galassie e la loro distanza: tanto maggiore è la distanza della galassia e tanto maggiore sarà il suo redshift.

La legge fu scoperta dall'astronomo Edwin Hubble nel 1929 e confermata con migliori dati nel 1931 in un articolo congiunto con Milton Humason. Confrontando le distanze delle galassie più vicine con la loro velocità rispetto a noi, Hubble trovò una relazione lineare fra velocità e distanza (ottenendo H0 = circa 500 km/s per Mpc, un valore 7 volte maggiore del valore attualmente accettato).

All'epoca del suo annuncio questo risultato era in realtà piuttosto dubbio: Hubble aveva sottostimato gravemente gli errori di misura, al punto che se oggi si ripetesse la sua analisi sul medesimo campione di oggetti, usando però i dati più aggiornati per le loro distanze e velocità di recessione, non si otterrebbe un risultato statisticamente significativo, poiché le galassie considerate sono troppo vicine a noi. Questa incertezza si manifesta nel fatto che il valore oggi comunemente accettato per H0 è quasi 10 volte inferiore a quello inizialmente stimato da Hubble stesso. Ciononostante, il fatto che fra distanza e velocità di recessione esista una relazione lineare è stato ripetutamente confermato da tutte le osservazioni successive.

Il telescopio spaziale, anch'esso intitolato allo scienziato, ha permesso ora di stimare il valore della costante in 74,2 chilometri al secondo per megaparsec, con un margine di errore di ± 3,6 chilometri al secondo per megaparsec. Il risultato è in accordo con la misura precedente (72 ± 8 km/sec/megaparsec) ma è ora due volte più accurata.

Le misurazioni del telescopio Hubble, condotte dal gruppo SHOES (Supernova Ho for the Equation of State of Dark Energy) coordinato da Adam Riess, dello Space Telescope Science Institute e della Johns Hopkins University, hanno consentito di perfezionare la scala delle distanze cosmiche che gli astronomi utilizzano per determinare la velocità di espansione dell'universo.

Le osservazioni si sono concentrate sulle stelle giganti pulsanti note come variabili Cefeidi nella galassia NGC 4258 e sulle galassie che hanno ospitato recenti supernove: l'uso del solo Hubble ha permesso di eliminare gli errori sistematici che sono talvolta inevitabili se si utilizzano differenti telescopi.

Lucas Macri, docente di fisica e di astronomia della Texas A&M University e coautore dello studio, ha spiegato che “le Cefeidi sono un elemento fondamentale della scala delle distanze cosmiche poiché il loro periodo di pulsazione è direttamente correlato alla loro luminosità, e da quest'ultima è possibile risalire facilmente alla loro distanza e quindi a quella galassia in cui sono comprese; inoltre nel vicino infrarosso, in cui sono state effettuate le nostre osservazioni, le Cefeidi rappresentano indicatori di distanza ancora più precisi rispetto alle lunghezze d'onda ottiche.

Anche i pianeti scompaiono

Solo qualche anno fa la ricerca di pianeti extrasolari era solo qualcosa di lontano, remoto, inaccessibile. Da circa vent’anni però le cose sono cambiate radicalmente: non solo si sono scoperti una moltitudine di pianeti extrasolari, ma si comincia a comprendere come essi si comportano e se esiste qualche gemello della Terra in orbita nello spazio profondo.

Le ultime scoperte hanno perfino messo in evidenza come, in presenza di un pianeta estremamente vicino alla propria stella, esso possa essere fagocitato dalla stessa. Una ricerca di Rory Barnes, astronomo dell’Università di Washington, ha affermato che, in presenza di pianeti di grosse dimensioni ed eccessivamente vicini alla propria stella, si potrebbero verificare fenomeni di “inglobamento planetario”.

 “L'ipotesi che le forze gravitazionali possano avvicinare un pianeta alla sua stella è stata confermata da modelli al computer solo recentemente, ed è la prima volta che si documenta che tale processo porta alla distruzione di un pianeta”, ha spiegato Rory Barnes, astronomo dell'Università di Washington.

La ricerca di Barnes, che con il collega Richard Greenberg firma un articolo sull'ultimo numero della rivista “Astrophysical Journal”, ha riguardato i pianeti molto vicini alla loro stella, oggetti che possono essere rivelati in modo relativamente semplice misurando la variazione di luminosità quando il pianeta, transitando, si trova lungo la direzione di osservazione.

Proprio in virtù della distanza molto limitata, tra il pianeta e la stella vi è un'intensa forza gravitazionale che deforma la superficie della stella con onde di marea che si sollevano dalla sua superficie gassosa.

Le maree deformano la stella: quanto maggiore è la distorsione mareale, tanto maggiore è la probabilità che il pianeta venga inghiottito”, ha aggiunto Greenberg.

La maggior parte dei pianeti osservati al di fuori del sistema solare è simile a Giove, tranne per il fatto che si tratta di oggetti molto più massicci. All'inizio di quest'anno è stato scoperto il pianeta extrasolare denominato CoRoT-7 B che, sebbene molto più grande, è più simile alla Terra di qualunque altro pianeta osservato finora. Esso orbita intorno alla sua stella a soli 22 milioni di chilometri di distanza, inferiore a quella che separa Mercurio dal Sole.

La sua temperatura inoltre raggiunge circa i 1400 gradi Celsius: non si tratta certo di un ambiente accogliente e, in tempi brevi per l'evoluzione del cosmo, cioè in circa un miliardo di anni, CoRoT-7 B sarà consumato.

Le orbite di questi pianeti evolvono lentamente, su scale temporali di alcuni di milioni di anni”, ha concluso Jackson. “Alla fine l'orbita del pianeta si restringerà a tal punto che il pianeta ne verrà distrutto, oppure la sua orbita comincerà a intersecare l'atmosfera della stella e a quel punto sarà il calore a distruggerlo.

Gli autori sperano che i risultati del loro lavoro consentano una migliore comprensione di come le stelle distruggano i pianeti e di come l'interazione gravitazionale possa influenzare le orbite planetarie, ora che l'interesse verso l'osservazione dei pianeti extrasolari ha trovano nuova linfa grazie al recente lancio del telescopio spaziale Keplero, progettato specificamente allo scopo di studiare gli oggetti che sono dimensionalmente simili alla Terra.

 

Libera interpretazione di un articolo de LeScienze 

L'oggetto più lontano mai visto

E’ stato raccolto lo scorso 23 aprile, dal telescopio spaziale SWIFT, un insolito flash gamma di una durata di ben 10 secondi nella costellazione del Leone.  Si tratterebbe di un evento catastrofico di immani dimensioni, battezzato GRB 090423 (GRB sta per Gamma Ray Burst seguito dalla data della scoperta).

I gamma ray burst (GRBs) sono potenti flash di raggi gamma di alta energia, la cui durata varia tra poco meno di un secondo e diversi minuti. Tali eventi rilasciano una quantità enorme di energia in un tempo molto breve, e rappresentano quindi gli eventi più energetici nell’universo stesso. Si ritiene siano per lo più associati  ad esplosioni di stelle la cui parte centrale arriva a collassare in oggetti molto densi e compatti, i buchi neri.

Successivamente è stato osservato sui telescopi  cileni di La Silla e del Paranal, gestiti dall'Organizzazione europea per la ricerca astronomica nell'emisfero australe (ESO). In particolare, il grande telescopio (VLT) del monte Paranal ha annunciato martedì 27 aprile di aver captato lo scintillio seguito a un'esplosione avvenuta circa 13 miliardi di anni fa, il che ne fa “l'oggetto” più antico e lontano mai osservato nell'universo.

L'esplosione si è prodotta più di 13 miliardi di anni fa, quando l'universo aveva il 5% della sua età, cioè 600 milioni di anni dopo il Big Bang”, ha riferito l'ESO. Questo ne fa “il raggio gamma più distante mai rilevato, ma anche l'oggetto più antico mai scoperto”, ha commentato Tanvir dell’Università di Leicester in Gran Bretagna.

 “L’incredibile distanza di questo lampo supera qualsiasi nostra aspettativa: si è trattato di una vera apparizione dal passato”, afferma lo scienziato a capo del progetto Swift, Neil Gehrels, del Goddard Space Flight Center della NASA.

Il lampo è stato registrato alle 10 di mattina ora italiana del 23 Aprile. Swift ha rapidamente localizzato l’esplosione, consentendo ai telescopi sulla Terra di puntare il bersaglio prima che il bagliore scomparisse. Astronomi dislocati in Cile e alle Isole Canarie hanno misurato indipendentemente lo spostamento verso il rosso dell’esplosione, che è risultato essere di 8,2. che corrisponde a una distanza di 13,035 miliardi di anni luce. Per la cronaca, l’oggetto appena spodestato dal ruolo di “più lontano” era sempre un raggio gamma, GRB08091:  ad una redshift di 6,7, si ritiene sia il prodotto di una esplosione stellare avvenuta circa 200 milioni di anni dopo quella del lampo appena scoperto.

Stiamo assistendo alla morte di una stella, e probabilmente alla nascita di un buco nero, in una delle più antiche generazioni stellari dell’Universo”, dice Derek Fox della Pennsylvania State University.

Per anni, gli astronomi sono stati a caccia di lampi di raggi gamma provenienti dalle prime generazioni di stelle, fallendo misteriosamente nel tentativo. Il rilevamento di GRB 090423 rappresenta perciò un’importante tappa di avvicinamento nella ricerca tesa a localizzare esplosioni che abbiano uno spostamento verso il rosso compreso tra 10 e 20.

Entro tre ore dal lampo del 23 Aprile, Nial Tanvir e i suoi colleghi hanno riferito il rilevamento di una sorgente a infrarossi nella posizione indicata da Swift, usando lo United Kingdom Infrared Telescope (UKIRT) di Mauna Kea, nelle Hawaii.

Nello stesso tempo, Fox ha guidato un tentativo di ottenere immagini nell’infrarosso del bagliore successivo all’esplosione, usando il telescopio Gemini Nord sul Mauna Kea. La sorgente risultava visibile nelle immagini a frequenze d’onda più lunghe mentre era assente in un’immagine catturata nella più breve lunghezza d’onda di 1 micron. Questa “ritirata” corrisponde a una distanza di circa 13 miliardi di anni luce.

Non appena Fox ha diffuso la notizia della distanza record, telescopi di tutto il mondo sono stati puntati verso il bagliore, nel tentativo di osservarlo prima che scomparisse.

Presso il Telescopio Nazionale Galileo di La Palma nelle Isole Canarie, un gruppo comprendente Guido Chincarini dell’Università di Milano-Bicocca, in Italia, ha determinato che lo spostamento verso il rosso del bagliore residuo era di 8,2. Il gruppo di Tanvir, raccogliendo osservazioni quasi simultanee ottenute con uno dei Very Large Telescopes (VLT) dell’ESO presso Cerro Paranal, in Cile, è arrivato allo stesso numero.

Si tratta di un’incredibile scoperta”, ha detto Chincarini, “ciò che la rende ancora migliore è che un telescopio chiamato Galileo ha fatto questa misurazione durante l’anno in cui celebriamo il quattrocentesimo anniversario del primo uso astronomico del telescopio da parte di Galileo.

Il team di ricercatori sottolinea come questa emozionante scoperta, mostri l’utilità e l’importanza dei raggi gamma per sondare le parti più remote del nostro universo, e confida di poterne trovare ancora di più lontani, nel prossimo futuro. 

Scontri cosmici

Ci sono voluti tre differenti telescopi per identificare una delle collisioni tra ammassi di galassie più dense di materia mai osservate: si tratta del sistema MACSJ0717.5+3745 (o brevemente MACSJ0717) posizionato a 5,4 miliardi di anni luce dalla Terra.

I ricercatori hanno scoperto che quattro distinti ammassi di galassie sono coinvolti in una triplice fusione. Gli ammassi di galassie sono i corpi più grandi dell’Universo soggetti alla forza di gravità ed è la prima volta che un simile fenomeno viene documentato in essi. In MACSJ0717, un flusso (o filamento) di galassie, gas e materia oscura lungo 13 milioni di anni luce si sta riversando in una regione già ricca di materia che ha causato una successione di collisioni. Questo processo è simile a un’autostrada che incanala le auto in un parcheggio già pieno.

In aggiunta a questo enorme tamponamento a catena, MACSJ0717 è rimarchevole anche a causa della sua temperatura”, ha detto Cheng-Jiun Ma dell’Università delle Hawaii e primo autore dello studio, “dal momento che ognuna di queste collisioni rilascia energia sotto forma di calore, MACS0717 possiede una delle più elevate temperature mai registrate in sistemi simili.

Sebbene il filamento che dà origine a MACJ0717 sia già stato scoperto da tempo, è la prima volta che è possibile distinguere i singoli contributi all'enorme collisione. In primo luogo, confrontando le posizioni relative delle masse i ricercatori sono riusciti a individuare la direzione di moto degli ammassi, che è risultata, nella maggior parte dei casi, parallela all'orientazione del filamento. Secondariamente, è stata individuata la regione più calda del sistema, nel punto in cui il filamento interseca l'ammasso, il che documenta ulteriormente l'intensità dei fenomeni di collisione in corso.

MACSJ0717 mostra il modo in cui un ammasso gigante di galassie interagisce con l’ambiente circostante su una scala di molti milioni di anni luce”, ha detto Harald Ebeling, un componente del gruppo di ricerca, anche lui dell’Università delle Hawaii. “Si tratta di un meraviglioso sistema per studiare come gli ammassi si accrescono attraverso la caduta di materiale proveniente da filamenti.

Le simulazioni al computer mostrano che gli ammassi di galassie più massicci dovrebbero accrescersi nelle regioni in cui intersecano filamenti di grandi dimensioni, costituiti da gas intergalattico, galassie e materia oscura, e lo facciano sfruttando la caduta di materiali al loro interno lungo la direttrice dei filamenti.

È eccitante che i dati che ricaviamo da MACSJ0717 appaiano in così splendido accordo con lo scenario rappresentato dalle simulazioni”, ha affermato Ma.

La possibilità di ottenere dati estesi su molteplici lunghezze d’onda è stata cruciale per questo lavoro. I dati ottici da Hubble Space Telescope della NASA e dal Keck Observatory sul monte Mauna Kea, nelle Hawaii, forniscono informazioni sul moto e la densità delle galassie lungo la linea di vista, ma non sul loro moto nella direzione perpendicolare a quella. Combinando i dati ottici con quelli nei raggi-X del Chandra X-ray Observatory, gli scienziati sono stati in grado di determinare la geometria tridimensionale e il moto all’interno del sistema.

In futuro, Ma e il suo gruppo sperano di poter usare dati ancor più dettagliati nei raggi-X per misurare la temperatura del gas lungo l’intera estensione di 13 milioni di anni luce del filamento. Molto rimane da imparare sulle proprietà del gas caldo nei filamenti, così come rimane da capire se il suo precipitare lungo queste strutture sotto l’azione della gravità possa riscaldare significativamente il gas all’interno degli ammassi su larga scala.

 

Questo è l’ammasso più spettacolare e più sconvolto che io abbia mai visto”, sostiene Ma, “e noi crediamo che esso possa rivelarci molto di più su come le strutture nel nostro Universo crescono e si evolvono.

Lo studio che descrive i risultati raggiunti è apparso sul numero del 10 Marzo di Astrophysical Journal Letters (http://www.iop.org/EJ/abstract/1538-4357/693/2/L56).

 

Libera traduzione del comunicato stampa Cosmic Heavyweights in Free-for-all, pubblicato sul sito dell’Osservatorio Chandra il 16 aprile 2009.

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