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L’inquinamento luminoso è alle stelle

Non si vedono più le stelle. La maggior parte dei cieli che possiamo vedere dalla Terra non diventa mai scuro, e permane in una sorta di eterno crepuscolo. La colpa, ancora una volta, dell’uomo. E di una forma di inquinamento che deriva dalle tante, troppe, luci che utilizziamo nei centri abitati. Luci che, in molti casi, sono superflue, in altri sono utili ma vengono progettate male e risultano troppo diffuse o orientate in modo sbagliato. Luci che, addirittura, sconvolgono la fauna notturna e influiscono negativamente sui ritmi circadiani di flora, fauna, persone. E offuscano le stelle. E secondo uno studio pubblicato su Science, stiamo messi peggio di quanto pensavamo: nell’arco di circa 11 anni, dal 2011, la luminosità del cielo è aumentata del 7-10 per cento all’anno nella banda visibile, quella che possiamo apprezzare con i nostri occhi.

Per valutare la variazione dell’intensità luminosa del cielo dal 2011 al 2022, gli scienziati hanno analizzato le osservazioni di 51.351 citizen scientist che hanno preso parte al programma di scienza partecipata Globe at Night, gestito dal NoirLab. Il progetto raccoglie dati sulla visibilità stellare ogni anno dal 2006 e chiunque può inviare osservazioni attraverso l’omonima applicazione che funziona su desktop o smartphone. Dopo aver inserito la data, l’ora e la località di riferimento, ai partecipanti viene mostrata una serie di mappe stellari. I partecipanti registrano quale corrisponde meglio a ciò che possono vedere nel cielo senza telescopi o altri strumenti. In questo modo si ottiene una stima della cosiddetta magnitudine limite a occhio nudo, che misura quanto deve essere luminoso un oggetto per essere visto. Si tratta già di una stima della luminosità del cielo, perché quando il cielo si illumina, gli oggetti più deboli scompaiono dalla vista.

La maggior parte delle osservazioni utilizzate nello studio ha coperto i cieli di Europa e Nord America, con un buon campionamento sia temporale (le osservazioni venivano fatte ogni anno) sia spaziale (la distribuzione è abbastanza uniforme sui due continenti). Si tratta della prima valutazione nella variazione di luminosità del cielo su larga scala (cioè su scala continentale).

«In passato abbiamo già esaminato le tendenze dei dati satellitari globali, ma finora le pubblicazioni delle tendenze della luminosità del cielo riguardavano solo singoli siti o un numero ridotto di siti», spiega a Media Inaf Christopher Kyba, ricercatore all’istituto di Remote Sensing and Geoinformatics del Deutsches GeoForschungsZentrum a Potsdam, in Germania, e primo autore dell’articolo. «L’altra grande novità è che si basa interamente sulla visione umana, piuttosto che sulle osservazioni strumentali».

Una scelta che potrebbe suonare bizzarra, quella di basare la valutazione del cielo interamente sull’esperienza umana anziché su una strumentazione oggettiva, ma che se effettuata su larga scala si può rivelare molto potente. Gli scienziati, infatti, sono ben consapevoli che ci sia una variazione sostanziale e soggettiva nel numero di stelle che le persone possono vedere. In generale, i giovani possono vedere più stelle degli anziani e gli osservatori più esperti possono vederne di più rispetto a chi osserva le stelle per la prima volta. Queste differenze rendono poco sensato e affidabile osservare le tendenze in un singolo luogo e fare una misura precisa di come il cielo stia cambiando, ma se le testimonianze raccolte sono in numero sufficiente (decine di migliaia, in questo caso), statisticamente la variabilità tra gli osservatori si annulla.

er rendersene conto, basta osservare il grafico accanto. Sebbene la differenza fra le singole osservazioni possa essere significativa, l’errore associato a tutte le osservazioni – dato il loro grande numero – si riduce e la differenza fra il 2011 e il 2021 risulta lampante. «La tendenza che si legge nella figura è molto più drammatica di quanto mi aspettassi», commenta Kyba. «L’aumento annuale della luce che abbiamo visto dal satellite era piuttosto piccolo in confronto».

La valutazione, dicevamo, riguarda soprattutto Europa e Nord America, e l’andamento che si è delineato potrebbe non essere valido per gli altri continenti. Il trend “globale” di cui parlano gli autori deve quindi essere inteso come relativo alle località del mondo in cui si effettuano osservazioni del globo notturno.

«Sarebbe fantastico se potessimo ottenere un maggior numero di osservazioni, non solo a livello mondiale, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Se avessimo un numero di osservazioni dieci volte superiore ogni anno, potremmo iniziare a esaminare le tendenze dei singoli Paesi. Sarebbe molto interessante, per verificare, ad esempio, se la legge nazionale di regolamentazione dell’inquinamento luminoso della Francia ha avuto un effetto».

Per quanto riguarda la differenza tra ciò che vediamo qui e ciò che vedono i satelliti, di cui si fa menzione sopra, gli autori spiegano che ci sono due possibilità che potrebbero spiegare i dati. La prima è che la luce che il satellite vede quando guarda in basso non proviene dalle stesse fonti di luce che le persone vedono quando guardano in alto. Per esempio, i satelliti hanno difficoltà a vedere i cartelli, perché brillano soprattutto lateralmente, non verso l’alto. Ma la luce laterale ha un peso molto importante e costituisce forse il contributo maggiore nella produzione del bagliore del cielo. L’altra possibilità è che la differenza di visione sia legata a una diversa finestra di sensibilità alle lunghezze d’onda dello spettro.

«L’unico satellite di osservazione globale attivo al momento non è in grado di rilevare la luce blu (sotto i 500 nm), quindi il passaggio dalle lampade arancioni al sodio ad alta pressione ai Led bianchi appare come un oscuramento nel set di dati satellitari», spiega Kyba. «Per quanto riguarda la luminosità del cielo però, la luce blu è la più problematica, perché il cielo è in grado di diffonderla molto bene. Inoltre, la luce blu ha un effetto più forte sulla visione umana di notte, e quindi il contributo di questa discrepanza risulta ancora più significativo se si valuta la brillanza del cielo a occhio nudo».

 

Fonte: Media INAF

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