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Come e perché la Nasa vuole schiantarsi su Marte

Il 12 agosto, nei laboratori del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, una navicella a forma a tronco di cono invertito, costruita come una fisarmonica ad anelli metallici concentrici e a diametro decrescente, si è schiantata al suolo a una velocità di circa 177 chilometri all’ora dopo un volo di 27 metri. È la simulazione di un impatto violento su Marte. La conta dei danni sta a zero, e l’obiettivo è centrato: l’urto è stato assorbito e le elettroniche sono salve.

Cominciamo con una precisazione: non si tratta della simulazione di un fallimento. È proprio così che dovrà andare l’atterraggio della missione Shield (Simplified High Impact Energy Landing Device), se verrà approvata. Si tratta di un lander pensato per un atterraggio su Marte tutt’altro che soft – e più che di una missione al momento si tratta di un concetto, di un cambio di prospettiva e di metodo. Finora, i nove atterraggi avvenuti sul Pianeta rosso dall’agenzia spaziale statunitense hanno visto l’impiego di speciali paracaduti, potenti airbag, jetpack e retrorazzi allo scopo di frenare opportunamente i veicoli prima dell’arrivo al suolo. Tutti progetti molto complessi, costosi, che richiedevano campagne di test infinite per minimizzare qualunque malfunzionamento, ma pur sempre con un esito inesorabilmente binario: frenata o schianto, com’è avvenuto nel 2016 al lander dell’Esa Schiaparelli.

Scienziati e ingegneri del Jpl, quindi, hanno pensato di lasciar fare alla fisica: se schianto dev’essere, che schianto sia. Ma arrivando preparati. Così è nato il concetto di Shield, un piccolo lander in grado di sostenere l’urto di un ammartaggio frenato solo dall’attrito dell’atmosfera marziana. Volendo essere quantitativi, il veicolo dovrebbe raggiungere la superficie dell’atmosfera a una velocità di oltre 23mila chilometri orari ed essere frenato, da questa, fino a 177 chilometri orari. Quest’ultima, quindi, è la velocità dell’impatto al suolo. Opportunamente moltiplicata per la massa del lander, l’energia cinetica che la struttura a fisarmonica deve riuscire ad assorbire.

Finora, la prototipazione del lander è ferma all’attenuatore, la componente che si occupa appunto di attutire l’impatto. L’ultimo test di atterraggio è avvenuto, dicevamo, a metà agosto, e l’attenuatore di Shield è stato fatto cadere su una lastra di acciaio spessa 5 centimetri appoggiata sul terreno, per simulare una superficie più dura rispetto a quella che il lander incontrerebbe su Marte. L’accelerometro di bordo ha rivelato che lo schianto è avvenuto con una forza di circa un milione di newton, paragonabile a un peso di 112 tonnellate. Le riprese ad alta velocità del test hanno mostrato anche che l’impatto è avvenuto con una leggera angolazione, e che in seguito il prototipo è rimbalzato in aria per circa un metro e mezzo infine si è capovolto. Il sospetto è che sia stata la piastra d’acciaio a causare il rimbalzo, dato che nei test precedenti – in cui l’atterraggio avveniva direttamente sul terreno – non si era verificato alcun rimbalzo. Per dichiarare riuscito il test, però, era fondamentale verificare che lo schianto non danneggiasse eventuale elettronica di bordo, una componente fondamentale in prospettiva di una missione spaziale futura. Per questo, a bordo di Shield erano stati inseriti uno smartphone, una radio e un accelerometro. Le verifiche del carico elettronico dopo l’impatto hanno mostrato che tutti i dispositivi, persino lo smartphone, sono sopravvissuti.

Il prossimo passo, fa sapere la Nasa, sarà finire la progettazione del lander entro il 2023 e capire come può essere applicato, nell’ambito di una futura missione spaziale, questo nuovo concetto. E chiudiamo con i vantaggi: innanzitutto, la notevole riduzione dei costi e la semplificazione della progettazione delle fasi di ingresso, discesa e atterraggio del lander e, non meno importante, la possibilità di ampliare la scelta del sito di atterraggio (o di ridurre la precisione nella traiettoria) includendo anche territori sconnessi e con una superficie meno uniforme.

 

Fonte: Media INAF

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